Data: 25/10/2013
 

Nel mare perduto di Icaro con Göran e Mona Schildt

Diario di bordo di un'esperienza irripetibile di una coppia di diportisti negli anni Cinquanta. Partiti da Venezia, lungo le coste dell’Adriatico dell’allora Jugoslavia e, superata l’Albania, sono scesi per lo Ionio per poi imboccare l’Egeo

Nel mare perduto di Icaro con Göran e Mona Schildt

“Il mare di Icaro”, edito da Mursia, del filandese Göran Schildt è un libro, un diario di bordo, che ha il sapore del tempo perduto, e della sua nostalgia. Racconta, infatti, un viaggio per mare, a bordo del Daphne, un dinghy, ovvero un’imbarcazione a vela e a motore da diporto, che Schildt e la sua compagna Mona hanno compiuto negli anni Cinquanta. Partiti da Venezia, lungo le coste dell’Adriatico dell’allora Jugoslavia e, quindi, superata l’Albania, sono scesi per lo Ionio per poi imboccare l’Egeo, tra isole greche e porti turchi.

Ma, a parte le struggenti descrizioni della natura e le preziose annotazioni d’arte, molte delle quali valide ancora adesso (Schildt, nato nel 1917 e morto nel 2009, era principalmente storico d’arte) il maggior interesse del libro risiede nel quadro sociopolitico che emerge dai contatti che i due diportisti hanno con le autorità e la gente dei luoghi in cui sostano. Ci sono, naturalmente, anche altre informazioni, come quelle sulla navigazione stessa, il clima, le intemperie, lo stato del mare, il tipo di manovre, di veleggiature e ancoraggio, che rivelano una grande dimestichezza con la pratica della navigazione. Ma queste, seppur suggestive, per il lettore comune hanno per lo più una funzione di corredo che avvalora la completezza di quella che resta la testimonianza di un’esperienza unica e irripetibile.

Detto questo, il libro, per quel che ci riguarda, rappresenta un documento che, più di qualsiasi trattato storiografico, trasmette quello che era il clima politico e dei costumi di allora. E lo fa attraverso una testimonianza disinteressata, nel senso che è frutto di una posizione piuttosto oggettiva dell’autore in ragione della sua provenienza lontana e distaccata da passioni e ragioni personali. Sulla Jugoslavia di Tito, sulla Grecia dei cosiddetti “anni di pietra”, per dirla con il titolo del bel film di Pantelis Voulgaris sugli anni della caccia ai comunisti, sull’ottusità e diffidenza delle autorità turche nei confronti degli stranieri quali Schildt e la compagna erano e, soprattutto, apparivano nella loro diversità scandinava.

Certo, nel leggere il libro, a un confronto con l’attuale situazione politica nei paesi toccati , non c’è dubbio che sono stati fatti passi da gigante nelle relazioni tra gli stessi. La caduta del comunismo in Jugoslavia e in Albania, il ripristino della piena democrazia in Grecia – avvenuta, dalla guerra civile in poi, solo nel 1974 - in un paese cioè pur appartenente al blocco occidentale, e la modernizzazione della Turchia, relegano quell’epoca, per l’oscurità politica, culturale e sociale in cui era avvolta, a una sorta di medioevo nel quale si spera di non ricadere mai più.

Emerge infatti chiaramente il volto, ad esempio, di una Jugoslavia in cui, approdando non senza prima aver affidato alle autorità il tragitto e i tempi di navigazione, “ci si sente sempre incerti su cosa è permesso e cosa non lo è”; per poi vivere il disagio di persone che si avvicinavano ai due naviganti implorando sottovoce di essere nascosti a bordo per fuggire dal paese; oppure incontri con gente – nello specifico due architetti svizzeri rimasti feriti – la cui imbarcazione era stata mitragliata da un aereo jugoslavo pur trovandosi in acque internazionali e così via. Tant’è che, quando, superata la Dalmazia, tagliarono l’Adriatico per raggiungere Brindisi dove li aspettava un amico italiano che sarebbe salito a bordo per veleggiare insieme verso la Grecia, il commento di Schildt è: “Non posso negare che il cambiamento dal clima mentale della Jugoslavia a quello italiano fu un po’ come essersi tolti un peso”. Sebbene, alcuni vizi italiani non mancano di essere sottolineati, come ad esempio quello di approfittare del turista per pelarlo in tutti i modi con trucchi che colgono ogni occasione per far levitare i prezzi. “Se non siete veneziano” leggiamo “non vi resta che sopportare di essere derubato in ogni occasione in una maniera che, dopo un mese, avrebbe avuto un effetto disastroso sui nostri fondi per il viaggio”.

Il passaggio in Grecia si arricchisce poi di motivi i più diversi che hanno a che fare con la natura, l’ospitalità della gente, l’ingenuità e la furbizia della stessa nella quale i due naviganti cadono fino al punto di star per acquistare un isolotto, in una illusione che presto si trasformerà in delusione avendo a che fare con l’avidità dell’animo umano. Ma ciò che più conta di questi approdi è il racconto che Göran Schildt fa dei resti di una civiltà antica della quale egli restituisce il fascino di un mondo tanto scomparso quanto, però, rimasto vivo per i sentimenti che è ancora in grado di suscitare nei visitatori. Tra l’altro, in Grecia, allora, si trovavano alle prese con un mondo arcaico, pastorale, religioso nella maniera più conservatrice e bigotta testimoniata in particolare nelle pagine che raccontano la regione del Monte Athos, ma che l’autore sa rendere anche divertenti.

Sulla costa dell’Egeo orientale la navigazione si alterna tra isole greche e porti turchi. Si avverte quasi una sorta di tenerezza nel leggere cronache che sono la testimonianza di qualcosa che, davvero, sia sul piano dei costumi che della mentalità, non c’è più, spazzato via dalla globalizzazione. Vanno lette così le pagine rivolte alla descrizione del viaggio in quella parte del Mediterraneo. E Schildt lo fa con una sensibilità di uomo occidentale che ben presto si accorge della deriva pericolosa a cui la scomparsa di quel mondo, al netto delle conquiste politiche e dei rapporti tra gli stati, porterà nell’uomo europeo. Ovvero “l’intorpidimento della propria sensibilità, la perdita della percezione di tutte le cose più profonde” per trasformarsi “in un pupazzo dalle reazioni meccaniche, una macchina che liquida in modo rapido e superficiale tutto quello che nei tempi passati costituiva per le persone il significato della vita. E’ una tragica maledizione che tutti noi moderni, apparentemente favoriti, condividiamo”.

Diego Zandel - Roma

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