Data: 01/11/2013

Hedia, una lettera del '63 e quell'uomo della Dc

Il documento, mai reso pubblico fino ad ora, potrebbe aprire nuovi scenari per comprendere il destino toccato a quei venti marinai scomparsi nel nulla. Il risultato di un anno d’inchiesta “vecchio stile” in giro per l'Italia 

Hedia, una lettera del '63 e quell'uomo della Dc

Proprio come in un giallo ottocentesco, la verità sul mistero della Hedia, la nave scomparsa cinquantuno anni fa nel Canale di Sicilia, potrebbe essere custodita in una lettera che vi proponiamo in esclusiva per la prima volta.

Quello della motonave Hedia, svanita nel nulla insieme al suo equipaggio composto da venti uomini (diciannove italiani e un gallese), è un enigma irrisolto e a lungo dimenticato. Secondo la versione ufficiale il mercantile affondò all'improvviso il 14 marzo del 1962, a causa dell'eccezionale maltempo, nei pressi delle coste tunisine. Eppure dubbi, sospetti e ipotesi inquietanti, tracciarono fin da subito i contorni di questo strano giallo marinaro. A cominciare dall'incredibile riconoscimento di alcuni dei componenti dell'equipaggio in una telefoto scattata sei mesi dopo la sparizione della nave.

L'immagine ritraeva un gruppo di prigionieri all'interno del consolato francese di Algeri, tra i quali alcuni familiari dei dispersi si dissero sicuri di riconoscere i loro congiunti
. Ma erano davvero i marinai della Hedia gli uomini ritratti in quella foto? Magari ridotti ad ostaggi, testimoni scomodi, finiti loro malgrado nelle trame di un intrigo internazionale con sullo sfondo la guerra franco-algerina? Oppure quell'apparizione fu, come si disse, solo il frutto della psicosi di alcuni parenti di quei marinai?

Il documento, mai reso pubblico fino ad ora, potrebbe aprire nuovi scenari per comprendere il destino toccato a quei marinai.
Quanto leggerete è frutto di un anno d’inchiesta “vecchio stile” condotta in giro per l'Italia, incrociando fonti, ascoltando persone, rovistando in archivi, solai e cantine alla ricerca di indizi su quel lontano naufragio. Un'indagine ostinata, giunta ad una svolta grazie alla lettera consegnata a chi scrive da Accursio Graffeo, nipote di uno dei marinai imbarcati sulla nave Hedia (il diciannovenne Filippo Graffeo di Sciacca nda).

«In poche parole in questa lettera si dice che la nave era carica di armi», spiega Graffeo. Armi destinate probabilmente all'Algeria, a quel tempo in guerra per ottenere l'indipendenza dalla Francia. Un conflitto durato sette anni, che proprio in quei giorni di marzo del 1962 viveva le ore più cruciali.

Le circostanze citate nello scritto sembrano chiare, anche se non sono state confermate da nessuna indagine ufficiale. Allo stesso modo appare evidente il sospetto che all'epoca alcune autorità italiane siano state a conoscenza di una verità molto scomoda.

Un mistero irrisolto. 
Il 14 marzo 1962 la motonave Hedia, bandiera liberiana, proprietà panamense e raccomandatario marittimo italiano, ripartì da Casablanca diretta a Venezia con nella stiva 4000 tonnellate di fosfati. Dopo aver costeggiato l'Algeria, il cargo scomparve misteriosamente nei pressi dell’arcipelago tunisino di La Galite. Almeno ufficialmente la Hedia affondò a causa delle condizioni proibitive del mare. Onde alte cinque metri agitavano ancora il Canale di Sicilia, quando iniziarono le ricerche congiunte delle unità della Marina Italiana con il supporto di una nave militare statunitense.

Tentativi imponenti in un tratto di mare tanto piccolo e trafficato, al punto che qualcuno, forse, temette che la Hedia venisse ritrovata per davvero. Così si spiegherebbe lo strano depistaggio che nove giorni dopo la scomparsa del mercantile portò su una falsa pista proprio mentre si stavano svolgendo le perlustrazioni. «Il Centro radio di Malta, ieri 22 marzo alle ore 19.34, ha intercettato un messaggio lanciato dal comando di porto di Tunisi» riportò il quotidiano La Stampa «con il quale si informavano le unità in navigazione che il giorno 21 marzo, alle ore 10.14 il piroscafo Hedia aveva notificato la sua posizione e si trovava in difficoltà a ridosso dell’isola La Galite». Ma era tutto falso: la Hedia non inviò mai nessun SOS da quella posizione. La stessa radio Tunisi, messa alle strette dal consolato italiano, prima confermò a parole di aver inviato il dispaccio e poi lo smentì ufficialmente tre giorni dopo. Di dare altre spiegazione nemmeno a parlarne, fine delle trasmissioni.

Cosa accadde dunque alla Hedia? Come mai il suo equipaggio, conscio di un’imminente tragedia dovuta a qualsivoglia motivo, non trovò il tempo per lanciare un mayday? Quale evento improvviso e inaspettato li colse di sorpresa? Dodici giorni dopo la scomparsa, sul destino della nave cominciò a pesare l’ombra sinistra del mistero. Finalmente il 26 marzo tre pescherecci di Lampedusa informarono di essere in possesso da ben sette giorni di alcuni rottami appartenenti al mercantile disperso: due salvagenti, una cintura di salvataggio e due tavoloni di boccaporto con macchie di nafta e olio. Basta. Troppo poco per avere la certezza che il cargo fosse realmente colato a picco. Una ipotesi che per altro non convinse mai del tutto alcune delle famiglie dei marittimi, i cui corpi non vennero mai restituiti dal mare.

Proprio nel tentativo di ricercare delle informazioni che confermassero l'affondamento della nave, uno dei parenti degli scomparsi si recò personalmente in Tunisia. Ma niente, della Hedia nessuna traccia. Solo il comandante della base strategica di Biserta, sollecitato ad esprimersi in merito, suggerì di inviare una relazione sul caso al governo francese, senza però chiarire per quale motivo Parigi avrebbe dovuto essere al corrente di informazioni riguardanti la nave sui cui viaggiavano i nostri connazionali. Giallo nel giallo, bastò un articolo relegato nelle pagine interne del giornale tunisino La Presse per suscitare le proteste del Ministero della Guerra francese. Perché?

Sulla stampa italiana cominciò a circolare la voce che la Hedia fosse stata scambiata per un bastimento di contrabbandieri in procinto di rifornire di armamenti i ribelli del Front de Libération Nationale (FLN), a quel tempo in guerra con la Francia per ottenere l'indipendenza dell'Algeria e quindi catturata o silurata dalle unità navali francesi. Di certo c'è che proprio in quei giorni di marzo del 1962 la cruenta guerra franco-algerina viveva momenti decisivi. Mentre il giorno 14 la Hedia si trasformava in una nave fantasma, Algeri e Parigi erano pronte al tanto atteso cessate il fuoco deciso dall’accordo di Evian e infine decretato tra tensioni e reciproche diffidenze il 19 marzo. Una sospirata tregua dopo i massacri, il terrorismo e il napalm, alla quale non avrebbe certo giovato la notizia di una nave presa di mira dal grilletto ancora caldo dei francesi.

Vennero mesi d’attesa in Italia e mesi di sangue in Algeria. Nei novanta giorni successivi al cessate il fuoco l’OAS (l’Organisation Armée Secrète), contraria alla decolonizzazione, tentò in tutti i modi di interrompere la tregua con il FLN. Nel solo mese di marzo del 1962 scoppiarono nella colonia francese una media di 120 bombe al giorno. Inutili massacri, l’OAS si arrese il 17 giugno e il 3 luglio il presidente De Gaulle proclamò l’indipendenza dell’Algeria. Ma invece di un periodo di serenità, la partenza dei francesi aprì la strada ad un tremendo periodo di anarchia. Settimane in cui il paese africano parve sull’orlo di un’altra guerra, questa volta interna, tra certi militari e l’ufficio politico provvisorio, accusato di sostenere «traditori e neocolonialisti». Nella gravissima situazione per l’ordine pubblico si moltiplicarono i rapimenti dei pochi europei rimasti. Centinaia di persone vennero rinchiuse in campi di prigionia per civili, mentre Algeri e il suo porto vennero trasformati in proprietà privata di un pugno di ufficiali.
Nel bel mezzo di questo marasma, il 14 settembre 1962, sei mesi dopo la scomparsa della nave, alcuni dei marinai imbarcati sulla Hedia vennero riconosciuti dai loro cari in una telefoto pubblicata casualmente dal Gazzettino di Venezia in seguito ai gravi disordini avvenuti in Algeria. La didascalia diceva: “Algeri, il gruppo di prigionieri europei rilasciati dagli algerini attende nei giardini del Consolato francese che si concludano le formalità burocratiche”.

Quali avventure condussero i marittimi nella tormentata Algeri non fu possibile accertarlo, ma improvvisamente la soluzione dell'enigma parve essere a portata di mano. Ma fu solo un'illusione che per giunta durò pochissimo. Da Parigi infatti, l’agenzia proprietaria della telefoto fece sapere che lo scatto era assolutamente autentico ma risaliva al 2 di settembre, cioè dodici giorni prima della pubblicazione sui giornali italiani. Come mai allora, in tutto quel tempo, nessuno dei marinai riuscì a dare notizie di sé dopo essere stato liberato? Fonti vicine all'Eliseo sostennero che il consolato francese di Algeri venne attaccato quello stesso giorno da alcune fazioni indipendentiste e che dei prigionieri presenti in quel momento nell’edificio non si seppe più nulla. Cosa ne fu di quegli uomini allo sbando nella capitale algerina, messa a ferro e fuoco nelle tragiche giornate di guerra civile? Furono giustiziati o caddero incidentalmente, mentre le colonne di camion e cannoni del futuro presidente Ben Bella accerchiarono Algeri?

Un'inchiesta giornalistica provò a sciogliere il mistero, riuscendo però solo ad aggiungere altri interrogativi alla già complessa vicenda. Si disse che gli uomini ritratti nella telefoto non erano italiani e che i parenti dei marinai, i quali avevano creduto di rivederli vivi e vegeti in quello scatto, fossero affetti da una psicosi collettiva. «Pensate davvero che non riusciamo a riconoscere i nostri cari dopo solo nove mesi?», risposero sdegnanti i familiari dei dispersi. Alla fine, non si seppe più a chi e a che cosa credere.

Dopo qualche tempo le indagini sul naufragio della motonave Hedia vennero archiviate e il caso fu completamente dimenticato dopo il disbrigo delle formalità burocratiche: la Liberia chiese ai Lloyd’s la cancellazione dell'imbarcazione dal registro navale, l’assicurazione pagò 110 milioni di lire all’armatore, la Cassa marittima versò quattrocentomila lire di assegno funerario per ogni marinaio disperso e il Regno Unito dichiarò presumibilmente morto l’unico componente straniero dell’equipaggio.

L’ultimo atto parlamentare riguardante la Hedia è la risposta dell'allora ministro della Marina Mercantile Spagnolli ad una interrogazione del 14 aprile 1965: «Benché le probabilità di far luce sulla scomparsa della nave sembrino ormai divenute oltremodo esigue, non si mancherà di svolgere ogni ulteriore indagine qualora dovessero emergere nuovi concreti elementi».




Un carico “importante”?
I 20 marinai della motonave Hedia scomparsi nel Mediterraneo, riapparsi forse per un istante davanti all'obiettivo di un fotografo ma mai ritrovati, si trasformarono in fantasmi. Spettri evocati nuovamente dopo 51 anni da una lettera scritta da un uomo disperato: Romeo Cesca, padre di Claudio, il marconista della Hedia. Il testo venne battuto a macchina il 14 ottobre 1963, cioè esattamente un anno e mezzo dopo la sparizione del cargo, dieci mesi dopo la chiusura dell'inchiesta giornalistica che pose fine alla speranza di riabbracciare i marinai dispersi. E' proprio allora che iniziano i particolari inediti.

Scrisse Cesca: “Nell'ultima campagna elettorale (quella dell'aprile del 1963 nda) la signora Graffeo (Rosa Guirreri Graffeo, madre del marinaio di coperta Filippo Graffeo nda) parlò con un esponente della Democrazia Cristiana, il dott. F (il nome è riportato per intero nella lettera di Cesca nda). Questo dott. F. disse alla signora Graffeo che era a conoscenza della scomparsa della nave con tutto l'equipaggio, disse che la nave non era in regola e che si trattava di contrabbandieri”. Secondo Cesca, il politico DC “affermò pure di essere stato presente a Roma ad una telefonata fatta dal Ministro Plenipotenziario ad una autorità estera, ove chiedeva loro se avesse l'equipaggio prigioniero”. La risposta, si legge, fu affermativa. L'autorità estera - che si trattasse di un ministero francese? - impose però delle precise condizioni per il rilascio dei nostri connazionali: “volevano sapere se le armi che portavano a bordo fossero state spedite dal governo italiano. Dissero che non li avrebbero lasciati liberi fino a quando non avessero confessato per conto di quale governo facevano il trasporto. Affermarono pure che in un primo tempo dovevano essere fucilati ma poi non lo fecero”.

Ma chi era il tale dottor F. citato più volte da Cesca? Mario F. era il segretario particolare di un senatore eletto nel collegio della Sicilia. «In una vecchia agenda di mia nonna ho trovato il suo nome accanto ad un vecchio numero di telefono e ad un indirizzo: piazzale Luigi Sturzo, Roma-Eur». Era la sede centrale della Democrazia Cristiana.

L'autore della lettera
Romeo Cesca, classe 1904, padre del marconista Claudio Cesca, venne descritto dalle cronache come un uomo sereno e obiettivo, di poche parole, non facile alle suggestioni. Un ritratto ancora confermato da sua nipote, Antonella Rabolini: «Mio nonno apparteneva ad una famiglia di noti commercianti triestini, legionario fiumano, era una persona di grande autorevolezza».

Cesca fece di tutto per riportare a casa suo figlio Claudio che, per un crudele scherzo del destino, aveva spinto lui stesso ad imbarcarsi, nonostante il giovane avesse manifestato il desiderio di abbandonare la vita di mare. «Mio zio era tornato a Trieste dagli Stati Uniti, sbarcando da una nave senza informare la famiglia», ricorda la signora Antonella, «voleva rivedere la fidanzata ma suo padre non aveva approvato tale colpo di testa ed aveva insistito perché trovasse al al più presto un altro lavoro, un'altra imbarcazione». Trovò la Hedia, la nave dei misteri.

La trattativa segreta
La possibilità che dietro la scomparsa della nave ci fosse qualcosa di oscuro non dovette stupire più di tanto Romeo Cesca, che già nei mesi successivi al presunto naufragio riuscì a far interessare al caso un amico, ufficiale di Marina. Il militare, che non è mai stato possibile identificare, gli fece sapere in via confidenziale che l’equipaggio era salvo, senza rivelare però altri dettagli e trincerandosi dietro la ragion di stato e a dei non meglio precisati «gravi motivi di sicurezza». Forse proprio gli stessi motivi che condussero nelle trame di questo incredibile giallo marinaro la figura di un religioso. Stando alla versione dei fatti fornita dalla lettera di Cesca, “la signora Graffeo pregò un sacerdote di accertarsi se le dichiarazioni fatte dal dott. F. fossero vere”.

Chi era questo religioso? «Si trattava di Don Michele Arena», rivela oggi Accursio Graffeo, «ma mia madre e mia zia ricordano bene quando la accompagnavano nonna Rosa da Don Arena alla chiesa di Giummare, a Sciacca: loro rimanevano sempre fuori e mia nonna entrava da sola, erano incontri riservatissimi». Dalle testimonianze raccolte in casa Graffeo, sembra che la madre del marinaio Filippo decise di non indossare più il vestito nero dopo aver riconosciuto «senza possibilità di equivoci» il figlio nella già citata telefoto. La donna attese speranzosa il suo ritorno a Sciacca perché, secondo l'interpretazione del nipote, «gli avevano dato la certezza che l'equipaggio era vivo ma la situazione era delicatissima».

Forse era davvero in atto una trattativa ad alti livelli, una difficile mediazione per far ritornare a casa i nostri marinai, che vide come protagonista proprio Don Arena. Ma perché venne riposta tanta fiducia in un parroco di provincia? La lettera di Cesca non lo spiega, ma Don Arena godeva di un grandissimo credito in Francia, dove il canonico fu insignito della Legion d'onore per la sua opera caritatevole nei confronti delle vittime del dirigibile della Marina Militare francese Dixmude, precipitato in mare proprio al largo di Sciacca nel 1923 dopo essere stato colpito da un fulmine. Per questo motivo addirittura il generale De Gaulle, presidente della Repubblica Francese, ricordando quei tragici momenti inviò un messaggio di ringraziamento al parroco saccense, il quale successivamente venne invitato a Parigi e accolto con tutti gli onori.

Arena era quindi l'uomo giusto per interessarsi al caso della Hedia e tentare di riportare in patria il suo equipaggio. E infatti, continuò Cesca, il sacerdote riuscì ad ottenere delle conferme sulla effettiva detenzione degli italiani, notizie che “la signora Graffeo voleva restassero segrete”.

Evidentemente però qualcosa sulla trattativa in atto a Roma riuscì a trapelare. Infatti altri familiari dei dispersi, al fine di ottenere delle spiegazioni, chiesero al Ministero degli Esteri di interrogare il politico democristiano e il diplomatico citati nello scritto. “Dopo qualche giorno”, raccontò Romeo Cesca, “ci giunse una risposta dal Ministero dove ci dicevano che li avevano interrogati e che essi negavano ogni cosa”. Fu solo a questo punto che l'uomo decise di provare ad intervenire personalmente, in quello che spiegò essere “l'unico modo possibile”: denunciando il dottor F. per aver definito contrabbandiere suo figlio e gli altri membri dell'equipaggio. “Desideravo portarlo in tribunale per far luce su questa sporca faccenda”, affermò Cesca, “o egli diceva la verità o veniva condannato per diffamazione”.

Per riuscirci era però necessaria la testimonianza di Rosa Graffeo, alla quale fu chiesto di confermare la versione dei fatti fin qui esposta. Ma “la signora non volle aderire a questa richiesta”, ammise Cesca con rammarico. Perché? Alla luce di quanto abbiamo letto abbiamo espresso il desiderio di chiederlo alla diretta interessata. Purtroppo però, in una storia piena di ombre come quella che stiamo raccontando, anche questa domanda è destinata a cadere nel vuoto. La signora Rosa oggi ha 97 anni e, com'è del tutto comprensibile, non riesce più a mettere a fuoco questi avvenimenti. «L'età non glielo permette» riferisce il nipote Accursio che non se l'è sentita di calcare la mano, «basta un accenno ai prigionieri di Algeri per farla commuovere, poverina». Una cosa però la signora Graffeo la ricorda molto bene e lo avevamo già scritto oltre un anno fa proprio su Maree. E' la frase che sentì pronunciare da Amintore Fanfani a margine di un incontro con i parenti della Hedia: «Per venti persone non si può fare una guerra».

Tante domande, poche certezze
La lettera si conclude con lo sconforto di un padre impotente di fronte ai silenzi lasciati, forse, per proteggere interessi inconfessabili: “Io sono amareggiato e sfiduciato e non credo più a nessuno”.

Difficile dire cosa ci sia di vero in questo scritto ricomparso dopo 51 anni. Romeo Cesca non può più confermare né smentire nulla essendo deceduto nel 1980. E proprio riguardo all'attendibilità della lettera anche Accursio Graffeo, impegnato da un anno a cercare la soluzione all'enigma della Hedia, non sa cosa pensare, ma confida «trovo comunque scandaloso che all'epoca tutto venne archiviato solo dopo qualche interrogazione parlamentare, davvero poco per diciannove cittadini italiani spariti in modo così sospetto».

Certamente ogni circostanza citata non può che essere presa con il beneficio del dubbio, per non dire con le pinze. In particolare nessuno dei marinai italiani è risultato essere mai stato coinvolto in traffici sospetti, anzi, erano tutti degli onesti lavoratori del mare, alcuni addirittura al loro primo imbarco. Ma se tuttavia l'ipotesi secondo la quale il mercantile era carico di armi trovasse delle conferme, per conto di quali soggetti veniva effettuato quel trasporto? Chi, a terra o a bordo, era a conoscenza di una simile operazione e chi ne fu una incolpevole vittima? E soprattutto: che fine fecero quei prigionieri una volta scampati alla fucilazione?

Sorge il dubbio che l'odissea di questa piccola nave nasconda ancora un grande segreto di cui forse si può ancora trovare qualche traccia. Manca ancora l'ufficialità ma è di poche ore fa la notizia che ambienti vicini alla Marina Militare avrebbero manifestato l'intenzione di richiedere ufficialmente gli atti - sempre che esistano - dell'inchiesta amministrativa e giudiziaria sul caso Hedia.

Massimiliano Ferraro - Torino

- La foto  con i marinai, il riconoscimento di Filippo Graffeo e la richiesta d'aiuto scritta dalla madre Rosa



 

Link:

- Gli spettri della Hedia "sottochiave" a Parigi
- La verità sui fantasmi della Hedia: Intervista esclusiva per Maree

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