Data: 03/06/2014
Autore: Sabrina Deligia 

Jolly Nero, la verità su mio figlio Giuseppe

Ad un anno dalla tragedia di Molo Giano a Genova - costata la vita a nove persone - Adele Chiello Tusa non sa ancora in che modo e a che ora è morto il suo ragazzo. Ma ha qualche idea chiara sui responsabili. L'intervista. 

Jolly Nero, la verità su mio figlio Giuseppe

Il 7 maggio del 2013, appena un anno fa, Giuseppe Tusa, trent’anni, è stato travolto e ingoiato per sempre dal buio del crollo della Torre dei Piloti di Molo Giano a Genova. Intrappolato nell’ascensore, precipitato nel giro di quindici secondi dal momento dell’impatto della Jolly Nero con l’edificio che avrebbe dovuto proteggere lui e i suoi colleghi.
Il corpo del sottocapo di seconda classe verrà ritrovato dopo sedici ore dalla tragedia, con “le mani maciullate”, come racconta sua madre, Adele Chiello Tusa, in questa intervista. Il suo ragazzo ha lottato fino all'ultimo respiro contro la morte. Anche lei, la signora Adele, è pronta a lottare con tutte le sue forze fino a quando la verità sulle dinamiche e le responsabilità della morte di Giuseppe - anzi dell'omicidio, ribadisce, anche delle altre otto persone che hanno perso la vita in quel maledetto giorno - non verrà, questa sì, a galla: “Il crollo della Torre dei Piloti è stata una strage annunciata in cui ogni parte in causa ha contribuito con indivisibile colpa”.

La prima cosa che le chiedo è di presentarmi suo figlio: chi era, come era arrivato in Marina, quali i suoi sogni. Soprattutto qual era il suo lavoro in quella Torre maledetta?
Giuseppe è il ragazzo, "fuori dal tempo", così si amava definire. Un ragazzo che al tempo stesso svolgeva il suo lavoro da militare, quindi in un ambiente molto disciplinato, con regole severe, di grande responsabilità e portava avanti la sua grande passione, quella per “la musica”, con altrettanta serietà. Tutto, ripeto, con la massima educazione e nel rispetto dei diversi ruoli. L’educazione di Giuseppe, una qualità apprezzata da tanti, emersa anche nei diari delle firme nelle camere ardenti di Genova e Milazzo, con mio grande stupore perché per me l’educazione di una persona è l’elemento fondamentale e pertanto scontato. Ma quello che lo caratterizzava maggiormente era l’amore per tutto. La sua stessa vita è una manifestazione di amore, ha amato tutto della vita e con grande umiltà, dignità, nel rispetto dei diritti e doveri e soprattutto nella legalità. Questi valori di onestà, sono le radici della sua vita, della sua famiglia, dei suoi amici, del contesto dove è nato e cresciuto. L’essenza del suo vivere è l’espressione più completa dell’amore, della gioia, dell’allegria che ha saputo trasmettere e che oggi io mi ritrovo come una grande eredità. Quando si parla di Giuseppe si dice sempre, per chi l’ha conosciuto, una persona speciale e per chi non l’ha conosciuto personalmente, il grande rammarico di aver perso l’occasione di godere della sua amicizia. Per lui l’amicizia era un valore importante della vita, molti dei suoi amici sono persone diversamente abili, che ha sempre protetto ed aiutato affinché non si sentissero diversi. Giuseppe ha perso, purtroppo, da bambino il padre per una grave malattia, questo lo ha reso molto responsabile e protettivo anche nei miei riguardi.

Quando ha deciso di indossare la divisa?
All’età di 17 anni decise di fare domanda per il concorso in Marina Militare. Il 17 Gennaio 2001 compì 18 anni, ad aprile dello stesso anno svolse il concorso, a giugno sempre nello stesso superò gli esami di maturità come Perito Chimico e a settembre del 2001 arrivò il telegramma del superamento del concorso e con la comunicazione di prendere subito servizio. Incomincia la sua carriera a Taranto, con il giuramento di fedeltà alla bandiera Italiana, poi un breve periodo a Milazzo, successivamente a Livorno e alla Maddalena per la formazione. In seguito le destinazioni sono state Ravenna, Termini Imerese, Messina e per concludere Genova.

Con quale qualifica è arrivato a Genova?
Con la qualifica di nocchiere di porto addetto al sistema radar Vts (Vessel Traffic Services). In pratica si occupava proprio del controllo della navigazione, gestendo la sicurezza nei mari e nei porti. Giuseppe ha percorso le tappe della sua vita molto velocemente, senza adagiarsi sempre per un senso di rispetto ai propri doveri. Purtroppo questo suo grande senso al dovere così forte, non ha avuto il riscontro al diritto fondamentale e costituzionale dell’uomo: la vita. Giuseppe aveva scelto di stare proprio dalla parte dello Stato. Ma proprio lo Stato lo ha tradito nei valori in cui credeva. Sin da bambino, ha sempre sostenuto che la giustizia è uguale per tutti e che tutti abbiamo diritto ad una giustizia libera e imparziale.

Giuseppe le ha mai rivelato preoccupazione per il suo lavoro in quella Torre?
Come dicevo prima, Giuseppe per via dell’assenza del padre, ha cercato sempre di proteggermi e quindi cercava sempre di evitarmi le preoccupazioni, per farle un esempio: se aveva 40 di febbre, mi comunicava un 37,7. Sopratutto a distanza non voleva allarmarmi. Per quanto riguarda la Torre, si era lamentato perché giù (sotto) non era sufficientemente illuminato e che spesso vibrava, anche con il semplice accosto alla struttura, di barche o di gente; ma al tempo stesso sosteneva che gli avevano assicurato che fosse antisismica. Ovviamente, lui non era un esperto in materia e poiché si occupava della sicurezza altrui, ha chiaramente affidato, con fiducia, la sua sicurezza ad altri.

Del crollo della Torre cosa mi può dire? Chi glielo ha comunicato?
Chi mi ha comunicato? Chi me lo ha comunicato? Nessuno! Chi aveva il dovere di avvertirmi non lo ha fatto proprio. La notte tra il 7 e 8, alle ore 4 circa hanno suonato alla porta di mia figlia Silvana degli amici, chiedendo se Giuseppe fosse di servizio e di accendere la televisione. Da quel momento è partito tutto: Silvana cerca di mettersi in contatto con la Capitaneria di Genova e dopo essersi accertata dei fatti, suo malgrado, il pensiero vola per me. Arriva da me a Milazzo con suo marito, accompagnati da alcuni parenti perché sconvolti, non sono in condizione figlia e genero di guidare. Alle 7 circa del mattino bussano alla mia porta e con grande sorpresa, perché io all'oscuro di tutto, li accolgo e chiedo spiegazioni. Mia figlia riesce con tanta attenzione a non trasmettermi la gravità dei fatti, sostenendo semplicemente che Giuseppe si trovava in ospedale per un piccolo, piccolissimo incidente. Io provo a chiamarlo al cellulare ma ovviamente è muto, chiamo il primo numero della Capitaneria di Porto che ho in rubrica, ma il caso vuole che faccio proprio quello della Torre e quindi niente. Mi sollecitano ad andare con loro, dobbiamo arrivare all’aeroporto di Catania il prima possibile e quindi ci avviamo. All’aeroporto, comincio a dubitare del piccolissimo incidente, perché è pieno di forze armate (avvertite oltretutto dai miei stessi familiari) e mi fanno imbarcare senza passare i controlli. Chiedo con insistenza spiegazioni e mi raccontano che una nave ha abbattuto la Torre, ma io incredula non ci credo e dico forse hanno messo una bomba (credo più veritiero ad un attentato), ma loro sostengono che quella è la verità e che Giuseppe è ferito in ospedale.

Quando ha capito che suo figlio era morto?
Da Catania arriviamo a Torino, dove una macchina ci aspetta per portarci a Genova, nessuno parla, tutti con le bocche cucite. Arrivati dentro la Capitaneria, vedo tantissima gente, io mi rivolgo ad un posto di accoglienza e chiedo ad una donna (che poi saprò psicologa volontaria) dove si trovava mio figlio e poco dopo mi riferisce: “Mi dicono che l’hanno preso adesso adesso”. Al che io continuo con le domande: “Chi? Da dove l’avete preso? Dove si trova? Ma di chi state parlando? Mio figlio si trova in ospedale e ditemi in quale ospedale si trova!”. La risposta della brava psicologa è stata la seguente: “E' all’obitorio”. Poi il vuoto. Mi scusi, ma mi manca il pezzo successivo, ho un vuoto. Ricordo solamente il viso di mio figlio disteso in una barella, coperto da un lenzuolo bianco. Dimenticavo, io sono arrivata in Capitaneria intorno alle 16 del giorno 8 e la cosa più grave che mi potessi aspettare è trovare mio figlio in coma in ospedale, perché alla domanda che posi, durante il viaggio a mia figlia: “So che non mi dirai tutta la verità, ma dimmi solamente se tuo fratello è vigile”. A questa domanda Silvana non seppe rispondere, motivo per la quale mi ero convinta che fosse in coma. Mai pensai, mai ho pensato, che non ci fosse più. Il dopo è stato come un sogno, come qualcosa che non mi potesse appartenere. Ero imbottita di farmaci, non avevo realizzato la tragedia e non avevo capito i fatti reali dell’accaduto. Noi siamo stati per tanti giorni isolati dalla realtà, con la presenza assidua di tutto il corpo, protetti da tutto e tutti ed all'oscuro di quanto accadeva fuori.

Cosa non ha funzionato, secondo lei, a Molo Giano?
Per rispondere a questa domanda devo però tornare un attimo indietro. A quando comincio a prendere coscienza della tragedia, del mio dramma. A quando riporto a casa Giuseppe. Giunta a Catania con l’aereo, mi sono ritrovata circondata da divise di ammiragli e comandanti fino a casa mia. Poi il funerale a Milazzo -  il secondo, perché c'era stato già a Genova, con tutte le vittime -  e i miei ragazzi, dopo un mese dalla tragedia, devono tornare al lavoro e così mi propongono di andare per un po' di tempo a vivere a casa loro, dato che io sono rimasta sola.
La notte non riuscivo a dormire e guardavo sempre il computer, quel pc che Giuseppe mi aveva lasciato e che io non sapevo adoperare. Ma dopo tanti sbagli incominciai ad usarlo ed una notte trovo e guardo un video sull'impatto della Torre. E comincio a leggere e a vedere tanti servizi e ad analizzare gli articoli. Così mi ritrovo a tornare indietro di 90 anni per capire il presente del porto di Genova, di chi progetta l’attivazione del Vts sulla Torre e mi ritrovo a leggere “Il Testo unico sulla sicurezza”. Mi documento sull’ente preposto ai controlli: il Rina (Registro italiano navale) a cui il ministero della Marina Militare delega il compito di verificare la sicurezza e l’affidabilità delle navi italiane, gli dà anche il potere di emettere certificati di conformità. Tuttavia l’attività del Rina è legata ad un statuto che lo classifica come un ente morale di natura giuridica privata e l’articolo n.1.1.5 precisa che in quanto tale: “Non ha e non può assumersi responsabilità pubbliche per i certificati che rilascia”. Proseguo nelle mie ricerche e mi documento qundi anche sugli armatori Messina e le loro navi, così finisco per leggere il libro di Riccardo Bocca, “Le navi della vergogna”.

Se dovesse mettere in fila i responsabili di questa tragedia da chi comincerebbe?
Comincerei dallo Stato per vari motivi. Lo Stato è il datore di lavoro di mio figlio e quindi è il responsabile della sicurezza dei luoghi di lavoro e della vita del lavoratore; lo Stato in quanto Direzione marittima (che sia Capitaneria di Porto o Guardia Costiera) è responsabile della sicurezza di tutti i porti, compresi quelli della Liguria; lo Stato con i suoi preposti è responsabile di bloccare o di limitare le navigazioni non a norma (dopo 70 tra avarie e incidenti le navi dei Messina dovevano essere rottamate da tempo); lo Stato è l’Autorità portuale, il Ministero dei Trasporti. Tutti loro sono responsabili di un porto, come quello di Genova, un budello stretto, privo di spazi necessari per le manovre e che dopo 90 anni ha la necessità di un adeguamento alle esigenze odierne (le navi sono aumentate di dimensioni e di quantità, così come è aumentato di conseguenza il traffico marittimo). Quella diga, la foranea, è stretta senza possibilità di fare inversioni e con un solo canale di entrata ed uscita; costituisce un bacino tanto piccolo quanto pericoloso per mancanza di distanze di sicurezza durante le manovre dalla stessa Torre dei Piloti, costruita come una palafitta ai margini del mare, senza alcuna protezione da qualsiasi tipo di pericolo. Tra i responsabili dei nove omicidi - ribadisco, della morte di mio figlio e delle altre otto persone - ci sono certo anche gli armatori e l’equipaggio della Jolly Nero, ma ancora più responsabili di loro sono coloro che non li hanno mai fermati. Nonostante tutto questa documentazione che prova l’inadeguatezza e la pericolosità di queste navi, dei loro cargo, come al Jolly Nero. Grave è che nonostante tutto siano liberi, continuino a lavorare e che quelle navi siano ancora in navigazione, tutte, compreso il cargo che ha ucciso mio figlio. Come possono i Messina, gli armatori della Jolly Nero, esseri ancora membri del Comitato portuale? Non è un conflitto di interessi? Come può la Guardia Costiera essere tra i responsabili della strage e collaborare alo stesso tempo per competenza con la Procura alle indagini? 

Torniamo a quella notte. Che idea si è fatta sulle dinamiche della tragedia?
Le posso rispondere dicendole che dopo un anno, dopo aver letto 2000 pagine di atti processuali, dopo aver presentato varie istanze e dopo aver parlato innumerevoli volte con il Pm, Walter Cotugno, non c'è traccia dei verbali di soccorso e dei documenti della polizia scientifica di quella notte. Mi è stato detto personalmente dal titolare dell’inchiesta, che non ci sono i verbali agli atti perché per lui, ai fini processuali, non sono rilevanti. Per lui i soccorsi ci sono stati, e se voglio quei verbali devo andarmeli a prendere dove sono, presso i vari enti e portarli alla sua attenzione con elementi di prova ai miei dubbi; solo allora valuterà la possibilità di aprire un fascicolo. Quindi dopo il danno anche la beffa, io mi devo improvvisare investigatrice, mentre chi dovrebbe, si solleva dal compito. Dopo un anno, io non so ufficialmente dove hanno trovato mio figlio, in che modo, chi l’ha preso, in che posizione, a che ora è morto e quanto è durata la sua agonia, dal momento che le mani maciullate di mio figlio dicono: “Ho cercato disperatamente di salvarmi”. Da una testimonianza sono a conoscenza che sono scesi dentro l’ascensore il mattino seguente, ma che il collega ferito Giorgio Meo, ai vigili del fuoco presenti sul Molo Giano, disse subito. “Non soccorrete me, ma i miei colleghi che si trovano nell’ascensore. Sento lamenti”. Quindi un punto è certo: erano nell’ascensore, chiedevano aiuto, ma nessuno ha provveduto a verificare subito. Molto cinicamente, come fanno loro, facendo un bilancio delle vittime posso affermare che i soccorsi sono falliti: tanto che abbiamo nove morti e quattro feriti. Tre di questi feriti sono stati salvati da persone che si trovavano per caso al porto. Meo, uno dei quattro feriti, si è praticamente salvato da solo. Un ascensore che cade adagiandosi ad una profondità che oscilla tra gli otto e i dodici metri non dovrebbe essere una meta irraggiungibile per gli esperti palombari della Marina Militare. Sono inoltre convinta che con le grandi tecnologie che abbiamo oggi si poteva avere l’illuminazione sufficiente per le operazioni di soccorso. Il fatto che mio figlio si trovasse dentro l’ascensore, lo apprendo a distanza di mesi, dopo le mie ricerche e dalla testimonianza del collega di Giuseppe. Nell’ascensore erano in quattro e smontavano dal servizio: Meo, Chiarlone, De Candussio e Giuseppe. Meo si fermò al primo piano per timbrare il badge, salvandosi poi dal crollo. L’ascensore invece cade giù dritto, con Giuseppe e gli altri due colleghi, ma non si capisce se dentro o fuori l’acqua. Chiarlone, superstite dello schianto dell’ascensore, non ricorda.

Cosa si aspetta dalla giustizia?
Vorrei concludere ribadendo pubblicamente che io voglio legittimamente sapere tutto quello che riguarda mio figlio, è un mio diritto e che la magistratura mi deve mettere a disposizione tutti gli strumenti ed il il materiale, compreso l’ascensore. Al fine di sottoporlo alla valutazione di tecnici esperti in soccorsi strategici in caso di catastrofe del genere. Voglio sapere se mio figlio si poteva e doveva salvare. Giuseppe Tusa è figlio mio ed ho il santo dovere di farlo rispettare, almeno da morto, dato che nessuno lo ha fatto da vivo e in tutto questo la magistratura ha l’obbligo di percorrere tutte le strade possibili per arrivare alla verità. Non può non tenere conto dei conflitti di interesse che sono palesemente emersi, affinché si eserciti l’azione penale verso i responsabili che hanno violato norme giuridiche e leggi dello Stato. Nonostante sia molto pessimista, spero che prevalga la vera giustizia. Soprattutto spero davvero che la giustizia sia uguale per tutti, che non faccia sconti per nessuno. Spero e chiedo che la giustizia prevalga a fronte dei poteri economici e politici che sovrastano il porto di Genova.

 

Sabrina Deligia - Roma

 

Link alla nostra inchiesta sulla tragedia di Molo Giano, testi e foto di Stefania Elena Carnemolla

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